i, xxii. Si domanda perché i frati frequentino più le mense dei ricchi che dei poveri

Domando perché frequentiate più le mense dei ricchi che dei
poveri mentre, nella vostra qualità di poveri di Cristo, dovreste
 frequentare i poveri ed accontentarvi dei loro cibi.

Rispondo. Principalmente tre motivi ci spingono a comportarci in questo modo. Anzitutto il nostro bisogno, perché, quando camminiamo in luoghi lontani e siamo affaticati per
la stanchezza e la fame, speriamo di ottenere ristoro con maggior facilità presso gente che, anche per la sua posizione sociale, non nega il pane ad alcun pellegrino, piuttosto che presso altri che non conosciamo. —

In secondo luogo, la mancanza di mezzi dei poveri, i quali, anche se ci ricevono con
gioia, a causa della loro devozione consumerebbero con noi in un sol pasto e con molto rincrescimento quanto servirebbe loro per nutrirsi più volte dal momento che posseggono solo ciò che si procurano giorno per giorno con le proprie mani.
— Infine, la salvezza dei ricchi stessi, i quali per l'occasione acquisiscono una familiare conoscenza con noi, cosicché possiamo condurli a poco a poco all'amore verso Dio, inculcare in essi la conoscenza della salvezza e rendere loro propizio Dio grazie al merito acquisito con questo atto di carità. I poveri, invece, che non posseggono in questo mondo la loro consolazione, sanno presentarsi da soli a Dio e domandano con assiduità consigli per la loro salvezza; mentre i ricchi, paghi delle realtà terrene, occupati a sbrigare affari mondani
e pieni di superbia, raramente si umiliano a chiedere un consiglio per la propria anima se i buoni ed i frati non offrono loro prudentemente l'occasione di farlo agendo come fece il
Signore con Zaccheo e con altri pubblicani e peccatori, e cioè mangiando con loro ed insegnando loro, benché non ignorasse che i farisei e gli scribi traevano spunto da questo fatto per mormorare e cercare motivi di denigrazione nei suoi confronti (Lue. 19,5 ss.).

i, xxiii. Si domanda perché i frati onorino più i ricchi dei poveri

Domando perché voi religiosi rispettiate più i ricchi dei poveri e vi mettiate più prontamente a loro disposizione per confessare, dare consigli o riverire, come spesso sappiamo e vediamo che fate, nonostante che la parzialità verso le persone sia colpevole presso Dio e proibita dall'apostolo Giacomo (cap.2,1 e 9).

rispondo. Dio ha creato uguali sia il piccolo che il grande e si prende cura allo stesso modo di tutti (Sap. 6,8) perché sono sue creature destinate alla salvezza eterna. Perciò anche noi dobbiamo amare tutti nel Signore, desiderare la salvezza sia
dei ricchi che dei poveri ed agire in relazione alle nostre possibilità in modo da essere utili agli uni e agli altri; per cui, se il povero è migliore del ricco, a maggior ragione dobbiamo rispettarlo ed amarlo nel nostro cuore; dobbiamo invece onorare il ricco con il nostro atteggiamento esteriore per quattro ragioni.

La prima perché onorando i potenti che Dio stesso onorò quand'era in questa vita, siamo in armonia con l'ordine da Lui voluto, visto che Dio ha preposto in questo mondo i ricchi ed i potenti ai poveri per la gloria del mondo stesso nel quale è necessario che alcuni ubbidiscano ed altri comandino.

— L'altra ragione è la debolezza d'animo dei ricchi i quali, se non fossero onorati, diventerebbero più instabili, peggiorerebbero e costituirebbero per noi e per gli
altri poveri un peso; ci comportiamo quindi in questo modo per non essere di danno ai deboli e perché i ricchi non diventino peggiori a causa di noi frati cui spetta invece il compito di condurre tutti al meglio.

 — Il terzo motivo è la maggior utilità che deriva al regno di Dio dal ravvedimento di un solo ricco che di tanti poveri. La salvezza di un povero infatti giova solo a lui stesso, mentre la correzione di un ricco giova a molti, sia per l'esempio che costituisce per altri i
quali ne sono edificati e spronati al bene, sia per eventuali beni che possono derivare al prossimo dal convertito, sia per i mali che sono evitati; lo si dice nel capitolo decimo dell'Ecclesiaste (vers. 2): Come è il reggente della città, così sono i suoi abitanti. La conversione alla fede dell'imperatore Costantino giovò alla Chiesa più di tante altre conversioni.

 — II quarto motivo è il maggior aiuto materiale che riceviamo dai ricchi; per cui ci pare giusto contraccambiarli con inchini particolarmente ossequiosi; i poveri, inoltre, possono essere aiutati con maggior facilità dei ricchi, perché non hanno grandi difficoltà spirituali, mentre i ricchi, avvolti in molti lacci mondani, hanno bisogno di frequenti ed accurati consigli; perciò è necessario che noi ci preoccupiamo in modo particolare di questi ultimi
perché non si lascino immergere più a fondo nel peccato. Dunque, come ho già detto, chi spinge un ricco al bene è d'aiuto a molti mentre, per converso, se un ricco si perde, esso diventa dannoso per molti.

 

Il, xxi. Perché i frati prestino con tanta difficoltà i loro scritti agli altri

Poiché è vostro compito elevare spiritualmente i buoni e condurre il prossimo al bene in relazione alle vostre possibilità, mi sembra che vi scostiate molto da questo programma quando prestate con tanta difficoltà i vostri libri e le vostre dispense agli altri che potrebbero giovarsi di essi ed essere utili in tal modo ad altri ancora; questo vostro comportamento, infatti, sembra causato dalla gelosia di veder progredire spiritualmente il prossimo, o dalla vana gloria di sembrar di sapere quello che altri ignorano, o da qualche altra cattiva intenzione.

rispondo. Dal momento che ignoriamo i segreti del cuore umano, è indice di avventatezza interpretare nel modo peggiore quello che talvolta può anche essere fatto con buona
intenzione e senza colpa; e ciò che in sé non è né bene né male, può spesso essere fatto a fin di bene, in modo lecito ed inappuntabile. Così il non prestare i propri scritti ad altri può
essere un'azione tanto condannabile quanto irreprensibile, lecita e cautelativa. È cautelativa quando uno scritto non è ancora corretto e sistemato al punto da poter essere compreso
da un estraneo, in quanto risulterebbe dannoso e costituirebbe materia e fonte di errore per chi lo ricopia o lo legge. Un libro in questo stato, poi, sarebbe più nocivo che utile per
chi l'ha voluto se non corrisponde alle sue aspettative. È anche segno di prudenza non prestare ad altri uno scritto di cui si ha continuo e frequente bisogno, perché nessuno è tenuto
a fornire ad altri cose non necessarie trascurando i suoi interessi.

— Non dare libri a prestito non è condannabile quando uno ha frequente anche se non costante bisogno di un suo volume e non ne può rimanere a lungo senza. Perché succede
che molti sono zelantissimi nel chiedere ma lenti nel restituire al punto che, più volte sollecitati, a mala pena alla lunga restituiscono borbottando quello che hanno avuto in prestito, aggiungendo parole ingrate in cambio del beneficio ricevuto. Spesso i copisti sciupano o lacerano le dispense ed i libri avuti in prestito, o li maneggiano con poca cura. Talora
chi ha avuto in prestito un libro lo passa ad un altro senza chiedere il permesso al proprietario, e quegli a un terzo, in modo che, alla fine, il proprietario non sa più a chi richiederlo e la catena del prestito si allontana a tal punto da lui che nessuno risponde più direttamente dei libro ricevuto. Tante volte il libro dato a prestito va anche smarrito, perché magari qualcuno, ritenendolo dimenticato, se ne appropria come se non appartenesse a nessuno. Talvolta il proprietario ed il prestatario cambiano residenza e si allontanano a tal punto uno dall'altro che il proprietario non può far chiedere il volume dato a prestito per mezzo di corrieri, perché teme che esso venga distrutto lungo il tragitto o rovinato dal messo,
da un predone o dall'acqua. Coloro, poi, ai quali i libri sono affidati per essere restituiti, talvolta vogliono leggerli prima di restituirli al proprietario, li prestano a loro volta, li lasciano da qualche parte, se ne dimenticano e, alla fine, negano di averli avuti; in tal modo vengono perse molte cose prestate agli altri. Talvolta qualche scritto è unito in un sol volume con
altre opere e, se il frate lo prestasse a qualcuno, dovrebbe slegare tutto il volume danneggiando gravemente le casse del convento ed i lavori di legatura effettuati. Spesso anche quando si concede a qualcuno di copiare un libro, altri, se non si fa altrettanto con loro, si offendono e perciò uno è costretto o a restar senza il suo scritto per parecchio tempo, o a farle passare di mano in mano col rischio che venga sporcato o smarrito.

Poiché dunque tutti questi motivi elencati non sono in sé condannabili, non è necessario pensare che i frati non sono caritatevoli verso il prossimo se non prestano libri e che I
neghino perché sono gelosi, vanagloriosi, risentiti, o perché hanno altri non buoni motivi, sebbene qualche frate non sia immune da tali difetti. [...] Poiché, dunque, i libri e le dispense dei frati sono stati concessi loro solo in uso ed affidi ad essi in custodia dai superiori, i frati non devono essere giudicati maldisposti se si preoccupano che non venga distrutto o disperso un patrimonio dato loro in custodia e non in proprietà.

 

 

 

GLI ERRORI DI ARISTOTELE[1]

 

2. Dio divise, pertanto, la luce dalle tenebre (Gen. 1,4); per cui possiamo dire dei filosofi quello che abbiamo detto degli angeli: come mai alcuni hanno seguito le tenebre? Per il fatto
che, sebbene tutti abbiano riconosciuto che la causa prima è il principio ed il fine di tutte le cose, si sono poi divisi sul modo di intenderla. Alcuni, infatti, hanno negato che in essa
ci siano gli esemplari delle cose; e il capo di costoro sembra essere stato Aristotele, il quale, all'inizio e alla fine della Metafisica (I, 9; XIII, 4 ss.; XII, 4 ss.; VI, 3 ss.) ed in molti altri
passi, disapprova le idee di Platone ed afferma che Dio: conosce solamente se stesso, non ha bisogno della conoscenza di nessun' altra cosa e muove solo come oggetto di desiderio e di
amore. Dal che alcuni filosofi traggono la conclusione che Dio non conosce nulla e nessuna realtà particolare. Aristotele, inoltre, combatte principalmente le idee di Platone nell' Etica
(1,6), dove dice che il sommo bene non può essere un'idea.
Ma le sue argomentazioni non valgono a nulla ed il commentatore[2] le supera.

3. Da questo errore ne segue un altro, e cioè che Dio non ha prescienza e non è provvidente per il fatto che non ha in sé le ragioni delle cose per mezzo delle quali conoscere le
cose stesse. — Quelli che la pensano come Aristotele dicono pure che solo di ciò che sarà necessariamente vi può essere conoscenza vera e che non c'è verità sui futuri contingenti. — Da ciò segue che tutto ciò che avviene o sia casuale o sia fatalmente necessario. E poiché è impossibile che tutto sia casuale, gli Arabi introducono nel mondo una necessità fatale ritenendo che le sostanze che muovono i cieli siano cause necessarie di tutti gli avvenimenti. — Da ciò risulta nascosta una verità, cioè la destinazione di tutte le realtà mondane alla
gloria od alla pena. Infatti, se quelle sostanze muovono necessariamente, non c'è più posto per l'inferno, ne per il diavolo; infatti Aristotele non ha mai ipotizzato, come pare, l'esistenza di un diavolo o l'esistenza di una beatitudine dopo questa vita. Il suo triplice errore consiste dunque in questo: negazione dell'esemplarismo, della provvidenza divina e dell'ordinamento del mondo.

4. Dal che derivano una triplice cecità ed un triplice oscuramento. Anzitutto l'eternità del mondo, come sembra affermare Aristotele secondo tutti i dottori greci quali Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo, Giovanni Damasceno, Basilio, e secondo tutti i commentatori, arabi i quali affermano che Aristotele affermò l'eternità del mondo e le sue parole
vogliono dire questo. Non troverete mai in Aristotele un'affermazione che dica: il mondo ha avuto un principio od un inizio; anzi, egli rimprovera Platone il quale solo sembra aver
sostenuto che il tempo ha avuto un inizio. Ma queste tesi di Aristotele sono contrarie al lume della verità.

Dal che segue la seconda cecità: l'unità dell'intelletto; perché se si stabilisce l'eternità del mondo, segue necessariamente una di queste quattro dottrine: o che vi siano infinite anime
poiché vi sono stati infiniti uomini, o che l'anima è corruttibile, o che esista la metempsicosi e che l'intelletto sia uno solo per tutti gli uomini; errore quest'ultimo attribuito ad Aristotele dal suo commentatore Averroè.
Dalle due precedenti cecità deriva, infine, che non esistono più né pena né felicità dopo la morte.

5. Tutti questi filosofi, dunque, caddero in errore e non furono separati dalle tenebre; e si tratta di pessimi errori. Non sono ancora stati chiusi sotto chiave nel pozzo abissale (Apoc. 9, 1 ss.). Essi costituiscono le tenebre dell'Egitto, perché la gran luce che sembra derivare loro dalle conoscenze possedute in precedenza, è completamente offuscata dagli errori che abbiamo ricordato. Ed altri, vedendo che Aristotele fu tanto grande in alcune cose e che espresse così bene la verità, non possono credere che in queste egli non abbia detto il vero.

6. Dico dunque che la luce eterna di Dio è l'esemplare di tutte le cose e gli spiriti elevati, come quelli di altri nobili filosofi antichi, giunsero a cogliere questa verità. In essa, pertanto e prima di tutto, si presentano all'anima i modelli delle virtù. « È assurdo, infatti, come dice Plotino (Enn. 1,2), che in Dio vi siano i modelli di altre cose e non quelli delle virtù».

 

 

 

 

L'ESISTENZA DI DIO

Se l'essere di Dio sia una verità indubitabile[3]

 

Si domanda anzitutto se l'essere di Dio sia una verità indubitabile. Che sia così si dimostra seguendo una triplice via.
La prima è questa: ogni verità naturalmente impressa in tutte le menti è indubitabile.

 — La seconda è la seguente: ogni verità proclamata da ogni creatura è indubitabile.

 — La terza via è questa: ogni verità certissima ed evidentissima in se stessa è indubitabile.

Quanto alla prima via si procede in questo modo; dimostrando con argomenti di autorità e di ragione che l'essere di Dio è impresso in tutte le menti razionali.

1. Giovanni Damasceno, nel primo libro (De fide orthod.), al capitolo terzo, afferma che: «La cognizione dell'esistenza di Dio è impressa naturalmente in noi ».

2. Cosi Ugo di San Vittore (De Sacram. p. iii, c. i) sostiene che: «Dio ha regolato a tal punto la nozione di sé presente nell'uomo che, siccome egli non avrebbe mai potuto comprenderne l'essenza nella sua totalità, non ne potesse almeno ignorare l'esistenza ».

 

3. Parimenti Boezio (iii De consol., prosa 2): « È impresso nelle menti degli uomini il desiderio del vero e del bene »; ma il desiderio del vero bene presuppone la conoscenza di esso, perciò nelle menti degli uomini sono impresse la nozione del vero bene ed un desiderio di ciò che è sommamente desiderabile. E questo bene è Dio; dunque ecc.

 

4. Agostino in più passi del De Trinitate (ix, 2, 2, ss.; xii, 4, 4 nss.; xiv, 8, ll ss.), dice che l'immagine consiste nella mente, nella notizia e nell'amore, e che il carattere di immagine si
scopre nell'anima in relazione a Dio; se dunque è naturalmente impressa nell'Anima l'immagine di Dio, l'anima ha naturalmente innata la conoscenza di Dio. Ma la prima cosa che
si conosce di Dio è la sua esistenza; dunque la conoscenza di essa è naturalmente innata nella mente umana.

 

5. Aristotele (ii, Poster., 15) afferma che « non sarebbe conveniente che possedessimo cose nobilissime e non lo sapessimo »; perciò, essendo l'esistenza di Dio una verità nobilissima, presentissima a noi, non è conveniente che tale verità rimanga nascosta all'intelletto umano.

 

6. Inoltre: è innato nelle menti degli uomini un desiderio di sapienza, poiché, dice Aristotele (i, Metaf., I): « Tutti gli uomini per natura desiderano sapere »; ma la sapienza sommamente desiderabile è quella eterna; perciò è profondamente insito nella mente umana il desiderio di tale sapienza. Ma, come si è detto prima, non c'è amore se non di ciò che è
in qualche modo conosciuto; perciò è necessario che una qualche nozione di quella somma sapienza sia impressa nella mente umana. Ma questo è in primo luogo sapere che Dio stesso
o quella sapienza esiste.

7. Inoltre, il desiderio della beatitudine è insito a tal punto in noi che a proposito di nessuno si può dubitare se voglia o no essere beato, come dice in più passi Agostino (De Trin.
XllI, 3, 3; 4, 7 ss.; 20, 25); ma la beatitudine consiste nel sommo bene che è Dio; perciò, se tale desiderio non può esistere senza una qualche notizia, è necessario che tale nozione mediante la quale si conosce che esiste il sommo bene, ossia Dio, sia impressa nella stessa anima.

 

8. È impresso pure nell'anima un desiderio di pace ed impresso a tal punto che lo si ricerca anche nel suo contrario; e questo desiderio non può essere neppure tolto ai dannati ed
ai demoni, secondo quanto si dimostra nel libro diciannovesimo del De civitate Dei (13,lss.). Se, dunque, la pace di una mente razionale non si trova se non in un ente immutabile ed
eterno ed il desiderio presuppone una nozione od una conoscenza, la conoscenza di un ente immutabile ed eterno è innata nello spirito razionale.

9. Inoltre, è insito nell'anima l'odio della falsità; ma ogni odio nasce dall'amore; perciò è molto più radicato nell'anima l'amore della verità e specialmente di quella verità per la
quale l'anima è stata fatta. Se dunque Dio è la verità prima, consegue necessariamente che la nozione della prima verità è insita nell'intelligenza razionale. — Che l'odio dell'errore, poi,
sia insito nella mente umana, appare dal fatto che nessuno vuol essere ingannato, come dice Agostino nel libro decimo delle Confessioni (23, 33 ss.). — Che l'odio sia causato dall' amore mostra ancora Agostino nel libro quattordicesimo del De civitate Dei (7, 2); nessuno infatti odia qualcosa se non perché ama il suo opposto.

10. Inoltre, è impressa nell'anima razionale la conoscenza di sé, perché l'anima è presente a se stessa e conoscibile per se stessa; ma Dio è presentissimo all'anima e conoscibile per se
stesso; perciò è impressa nella stessa anima la nozione del suo Dio. Se tu dicessi che non è la stessa cosa perché l'anima è proporzionata a sé ma Dio non è proporzionato all'anima,
risponderei: la tua obiezione non vale, perché se la proporzionalità fosse necessaria alla conoscenza, l'anima non giungerebbe mai alla conoscenza di Dio poiché non può essere paragonata a Lui né per natura, né per grazia, ne per gloria.
Con queste ragioni, dunque, si dimostra che l'esistenza di Dio è una verità indubitabile naturalmente impressa nell'intelligenza umana; nessuno infatti dubita se non di ciò di cui non possiede una conoscenza certa.

Questo si dimostra per la seconda via così; ogni verità proclamata da tutte le creature è indubitabile; ma ogni creatura proclama l'esistenza di Dio. — Che, poi, ogni creatura proclami Resistenza di Dio, si dimostra in base a dieci aspetti delle cose ed a proposizioni immediatamente evidenti.

11. La prima è questa: se c'è l'ente che vien dopo c'è l'ente che vien prima poiché l'ente che vien dopo dipende da quello che vien prima; se dunque vi è l'insieme degli enti
che vengono dopo, e necessario che vi sia un primo ente. Se, pertanto, è necessario ammettere un prima e un poi nelle creature, è necessario che l'insieme delle creature implichi e
proclami l'esistenza di un primo principio.

 

12. Inoltre, se esiste un ente che dipende da un altro, esiste anche l'ente che non dipende da un altro, poiché nulla può far passare se stesso dal non essere all'essere; dunque,
è necessario che vi sia una prima ragion d'essere che è nell'ente primo, il quale non è stato prodotto da un altro. Se dunque l'ente che dipende da un altro è detto ente creato e l'ente
che non dipende da un altro è detto ente increato ed è Dio, tutti i diversi tipi di ente implicano l'esistenza di Dio.

 

13. Inoltre, se vi è l'ente possibile deve esserci l'ente necessario perché il possibile dice indifferenza all'essere e al non essere; ma non può un ente essere indifferente ad essere e a
non essere se non in virtù di qualcosa che è pienamente determinato all'essere. Se dunque l'ente necessario che non ha assolutamente alcuna possibilità di non essere è soltanto Dio
ed ogni altro ente ha qualche possibilità di non essere, ogni differente tipo di ente implica l'esistenza di Dio.

 

14. Inoltre, se vi è un ente relativo deve esserci anche l'ente assoluto poiché il relativo non è tale se non rispetto all'assoluto; ma l'ente assoluto non può essere detto dipendente da nessun altro se non perché non riceve nulla da un altro; e questo è l'ente primo; mentre ogni altro ente ha una qualche dipendenza; quindi è necessario che ogni differente tipo di ente implichi l'esistenza di Dio.

 

15. Inoltre, se vi è un ente limitato o parziale vi è l'ente che è assolutamente, perché l'ente parziale non può né essere, né essere concepito se non per mezzo dell'ente che è assolutamente; e l'ente limitato non può esistere ed essere concepito se non in virtù dell'ente perfetto, come la privazione non si concepisce se non per mezzo del positivo. Se pertanto ogni ente creato è parziale, solo l'ente increato è ente che è assolutamente e perfetto; perciò è necessario che ogni diverso tipo di ente implichi e supponga l'esistenza di Dio.

 

16. Inoltre, se vi è un ente ordinato ad altro deve esserci un ente autosufficiente, altrimenti non esisterebbe il bene; ma l'ente autosufficiente non è se non quell'ente di cui non
può esservi migliore, cioè lo stesso Dio; perciò, poiché la totalità degli altri enti è ordinata a lui, la totalità degli enti implica l'esistenza e la nozione di Dio.

 

17. Inoltre, se vi è un ente per partecipazione deve esserci un ente per essenza, perché la partecipazione non si riferisce se non a qualcosa di posseduto essenzialmente da qualcos' altro poiché ogni predicato accidentale si riconduce a un predicato essenziale; ma qualunque ente diverso dall'ente primo che è Dio, ha l'essere per partecipazione, mentre solo Lui
ha l'essere per essenza.

 

18. Inoltre, se vi è l'ente in potenza deve esserci l'ente in atto poiché la potenza non può passare all'atto se non in virtù di un ente in atto e la potenza non sarebbe tale se non
potesse passare all'atto; se, dunque, quell'ente che è atto puro e non ha in sé alcuna possibilità non può essere che Dio, è necessario che ogni ente diverso dal primo implichi l'esistenza di Dio.

 

19. Inoltre, se vi è un ente composto deve esserci un ente semplice perché il composto non ha l'essere da sé ed è perciò necessario che abbia la sua origine da un ente semplice ma l'ente semplicissimo, che non ha in sé alcuna composizione, non può essere che l'ente primo; perciò ogni altro ente implica Dio.

 

20. Inoltre, se vi è un ente mutevole deve esserci un ente immutabile, perché, secondo quel che prova Aristotele (Fis. viii, 5; Metaf. xi, 7), il moto proviene da un ente immobile e ha
per fine un ente immobile; se, dunque, l'ente del tutto immutabile non può essere se non quell' ente primo che è Dio e gli altri enti creati per il fatto stesso di essere creati sono
mutevoli, è necessario che l'esistenza di Dio sia inferita da ogni differente tipo di ente.

Da questi dieci presupposti necessari ed evidenti si inferisce che tutti i diversi tipi o zone dell'ente implicano e proclamano l'esistenza di Dio. Se, dunque, ognuna di queste verità è
indubitabile, è necessario che l'esistenza di Dio sia una verità indubitabile.

La medesima conclusione è dimostrata per la terza via così: ogni verità così certa da non poter essere negata senza contraddizione è una verità indubitabile; ma l'esistenza di Dio
è tale; dunque ecc. La maggiore è immediatamente evidente, la minore si dimostra in vari modi.

21. Infatti Anselmo, nel capitolo quarto del Proslogio, dice: « Ti ringrazio. Signore buono, poiché quello che prima credevo per tuo dono, ora lo capisco per influsso della tua luce, sicché, se anche non volessi credere che tu esisti, non potrei non saperlo ».

 

22. E questa verità è provata da Anselmo come segue: Dio è ciò di cui non si può pensare il maggiore; ma ciò che non può essere pensato non esistente è più vero di ciò che può
essere pensato non esistente; dunque, se Dio è ciò di cui non si può pensare il maggiore. Dio non può essere pensato non esistente.

 

23. Inoltre, l'enee di cui non si può pensare il maggiore è di tale natura che non può essere pensato se non esiste anche nella realtà; poiché se esistesse nel solo pensiero non sarebbe l'ente di cui non si può pensare il maggiore; dunque, se un tale ente è pensato, è necessario che esista in realtà in tal modo da non poter essere pensato non esistente.

 

24. Ancora Anselmo (Prosl. 5) affermia : « Tu sei tutto ciò che è meglio esista piuttosto die non esista »; ma ogni verità indubitabile è migliore di ogni verità dubbia; perciò a Dio
si deve attribuire piuttosto l'essere indubitabile che l'essere dubitabile.

 

25. Inoltre Agostino dice nei Soliloqui (i, 8,5) che nessuna verità può essere vista se non nella prima verità; ma la verità nella quale è vista ogni altra verità è sommamente indubitabile; perciò l'esistenza di Dio non è solo una verità indubitabile, ma anche una verità di cui non si può pensare nulla di più indubitabile; dunque è una verità tale da non poter essere pensata non esistente.

 

26. Agostino (Sol. I, 15, 27 ss.; II, 2,2; e 15,28) dimostra questa stessa verità come segue: tutto ciò che si può pensare si può anche enunciare; ma in nessun modo si può enunciare che Dio non esiste senza affermare insieme che Dio esiste. E questo si dimostra come segue: poiché se non vi è alcuna verità è vero che non c'è la verità, e, se è vero queste, esiste qualche verità e, se esiste qualche verità, esiste la verità prima, pertanto, se non si può affermare che Dio non esiste non lo si può neppure pensare.

 

27. Quanto maggiore e più universale è una verità tanto è più nota; ma questa verità con la quale si dice che esiste il primo ente è la prima fra tutte le verità sia nell'ordine ontologico che in quello logico; perciò è necessario che essa stessa sia certissima ed evidentissima. Ma la verità degli assiomi e delle proposizioni più universali è a tal punto evidente a causa della loro priorità che essi non possono essere pensati come inesistenti; pertanto nessuna intelligenza può pensare che la stessa prima verità non esista o dubitare della sua esistenza.

 

28. « Nessuna proposizione è più vera di quella nella quale la stessa proprietà è predicata di se stessa » (Boezio, Periherm. Arìstot., i, 14); ma quando dico che Dio è, l'essere detto
di Dio è identico con Dio perché Dio è il suo stesso essere; dunque nessuna proposizione è più vera ed evidente di quella che dice: Dio è, dunque nessuno può pensare che essi sia
falsa o dubitarne.

29. Inoltre nessuno può ignorare che questa proposizione: l'ottimo è ottimo, sia vera, oppure pensare che sia falsa; ma l'ottimo è un ente completissimo ed ogni ente, per il fatto
stesso di essere completissimo, è anche in atto; pertanto, se l'ottimo è ottimo, l'ottimo è. — Similmente si può argomentare: se Dio è Dio, Dio è; ma l'antecedente è vero a tal
punto che non può essere pensato non esistente; pertanto l'esistenza di Dio è una verità indubitabile [...].

rispondo. Per la comprensione delle cose predette occorre notare che una cosa si dice indubitabile per privazione del dubitabile; ora il dubitabile si dice in due sensi: o per il
discorso della ragione o per difetto di ragione. Il primo modo di intendere riguarda il conoscibile ed il conoscente; il secondo modo di intendere solo il conoscente. Dubitabile nel
primo senso è detta qualche verità perché le manca il carattere di evidenza o in sé, o in rapporto ad un medio probante, o in rapporto all'intelletto che apprende. Ma in nessuno di questi modi di intendere manca la certezza a questa verità che è l'esistenza di Dio.

È certo infatti allo stesso intelletto conoscente che la conoscenza di questa verità è innata nella mente razionale in quanto la mente ha carattere di immagine grazie alla quale sono
i
nsiti in lei il naturale desiderio, la nozione e la memoria di Colui ad immagine ilei quale è stata creata e verso il quale tende naturalmente per poterne essere beatificata.

La verità dell' esistenza di Dio è ancora più certa in rapporto alla ragione probante. Infatti tutte le creature, sia considerate secondo le loro proprietà positive che difettive, con voci altisonanti proclamano l'esistenza di Dio del quale hanno bisogno a causa della loro mancanza di perfezione e dal quale ricevono perfezione. Per cui secondo la loro  maggiore  o  minore perfezione proclamano alcune con grande, altre con maggiore, altre con grandissima voce che Dio esiste.

E tale verità è anche certissima in sé per il fatto che è una verità prima e immediatissima nella quale non solo la nozione del predicato è contenuta nel soggetto, ma è lo stesso l'essere che è predicato e il soggetto di cui è predicato. Perciò, come ripugna sommamente al nostro intelletto l'unire termini differentissimi fra loro, perché nessun intelletto può pensare che qualche cosa esista o non esista al tempo stesso, così ripugna la divisione di qualche cosa che è totalmente uno e indiviso; per cui, come è evidentissimamente falso che una stessa cosa esista e non esista, o che esista in modo sommo o non esista affatto, così è una verità evidentissima che il primo e sommo ente esiste. — Pertanto, se si ritiene indubitabile ciò che toglie ogni dubbio per discorso della ragione, l'esistenza di Dio è una verità indubitabile poiché, sia che l'intelletto penetri in se stesso, sia che esca fuori di sé, sia che guardi sopra sé, se procede razionalmente conosce con certezza ed indubitabilmente l’esistenza di Dio.

Se poi si considera l'indubitabile nel secondo senso, in quanto cioè toglie il dubbio che deriva da un difetto di ragione,allora si può concedere che per un difetto degli uomini qualcuno possa dubitare clic Dio esiste, e ciò per un triplice difetto dell'intelletto conoscente: o quanto all'atto dell'apprendere, o quanto all'atto del giudicare, o quanto all'atto di ricondurre a un primo principio. — Quanto all'atto dell'apprendere, il dubbio si inserisce quando il significato del nome Dio non è assunto in modo reno e nella sua pienezza ma solamente per qualche suo aspetto, come hanno fatto i pagani i quali pensavano che Dio fosse tutto ciò che era superiore all'uomo e poteva prevedere in qualche modo il futuro e perciò credevano che gli idoli fossero dei e li adoravano come dei perché davano talvolta responsi veritieri sul futuro. — Quanto all'atto del giudicare, il dubbio si ha quando il giudizio è parziale, come quando lo stolto vede che non si fa manifestamente giustizia dell'empio e ne conclude che non esiste provvidenza nell'universo e, perciò, che non esiste in esso un rettore primo e sommo come Dio eccelso e glorioso. — Similmente, quanto al difetto nel ricondurre a un primo principio: il dubbio subentra quando un intelletto carnale non sa arrivare se non sino a quello che i sensi mostrano, vale a dire, alle realtà corporee; per il qual motivo alcuni ritennero che questo sole visibile che occupa un posto preminente fra le creature corporee fosse Dio, perché non erano capaci di giungere sino alla sostanza incorporea, né sino ai primi principi delle cose. — E così nella proposizione Dio esiste può sorgete un dubbio causato da un difetto dell'intelletto che apprende, o che giudica, o che riconduce a un primo principio; e secondo un tale modo difettoso di intendere, qualche intelletto può pensare che Dio non esiste, perché esso non comprende con sufficiente integrità il significato del termine Dio. — Ma quell'intelletto che comprende appieno il significato di questo nome: Dio e ritiene che Dio è ciò di cui non si può pensare il maggiore, non solo non dubita che Dio esiste, ma anche in nessun modo può pensare che Dio non esiste. Perciò dobbiamo ammettere come vere le ragioni che lo dimostrano esistente.

La contemplazione di Dio per mezzo della sua immagine impressa nelle potenze dell'anima[4]

 

1. Poiché i due gradi precedenti, guidandoci a Dio attraverso le sue orme per mezzo delle quali Egli risplende in tutte le sue creature, ci hanno condotti sino al punto di rientrare in
noi, nel nostro spirito nel quale risplende l'immagine divina, ora, in terzo luogo, rientrando in noi stessi e lasciando fuori l'atrio, dobbiamo sforzarci di vedere Dio come in uno
specchio, nel santo[5]3, nella parte anteriore del tabernacolo; lì la luce della verità brilla come un candelabro di fronte alla nostra mente nella quale risplende l'immagine della beatissima Trinità.

Entra, dunque, dentro di te e osserva con quale ardore la tua mente ama se stessa; ora, essa non potrebbe amarsi se non si conoscesse e non potrebbe conoscersi se non avesse il
ricordo di sé, poiché la nostra intelligenza non apprende se non ciò che è presente alla nostra memoria; vedi, perciò, non con l'occhio della carne, ma con quello della ragione, che
la tua anima possiede una triplice potenza. Considera le attività e i rapporti di queste tre potenze e potrai vedere Dio in te stesso come nella sua immagine, il che significa vedere in
uno specchio « in aenigmate ».

 

2. L'attività della memoria consiste tiri ritenere e rappresentare non solo le realtà presenti, corporee e temporali, ma anche le realtà che si susseguono, che sono semplici ed eterne.
— Infatti la memoria ritiene il passato col ricordo, il presente con l'apprensione e il futuro con la previsione. — Ritiene anche le cose semplici, cioè i principi delle quantità continue e discrete come il punto, l'istante e l'unità senza cui sarebbe impossibile il ricordare o il pensare quelle cose che da essi hanno principio. — Ritiene anche i principi e gli assiomi delle scienze come realtà eterne e in modo eterno poiché mai può dimenticarli sin tanto che conserva l'uso della ragione, e se li sente nominare, non può non approvarli e concedere ad essi il suo assenso, e non come se li percepisse di nuovo, ma come se li riconoscesse come innati e familiari.
Per convincersene basta proporre a qualcuno « Il principio di non contraddizione » (Arist., i , Post. ,10)  od il  principio: « II tutto è maggiore della parte», o qualunque altro principio che la « ragione interiormente» non può contraddire. Ritenendo attualmente tutte le cose temporali, ossia il passato, il presente e il futuro, la memoria porta in sé l'immagine dell'eternità il cui presente indivisibile si estende a tuiti i tempi. — Con la capacita di ritenere le cose semplici, la memoria dimostra di possedere non solo la possibilità di essere informata dalle immagini esteriori, ma anche da un principio superiore, possedendo in se stessa delle forme semplici che non possono entrare per le porte dei sensi e delle fantasie sensibili. — Ritenendo i principi e gli assiomi delle scienze, essa dimostra di possedere una luce immutabile sempre presente a sé, nella quale si ricorda delle verità che non cambiano mai. — E così, dalle attività della memoria risulta che l'anima stessa è immagine e similitudine di Dio, a tal punto presente a sé ed avente Dio così presente da poterlo comprendere in un atto ed essere «potenzialmente capace di possederlo e di parteciparne » (Agostino, De Trin. xiv, 8, 11).

 

3. L'attività della potenza intellettiva, poi, consiste nel comprendere il significato dei termini, delle proposizioni e delle argomentazioni. — Ora l'intelletto comprende il significato
dei termini quando apprende mediante la definizione che cosa è una cosa. Ma ogni definizione si fa per mezzo di termini generali, e questi si definiscono per mezzo di termini ancor più generali, sinché si arriva alle nozioni supreme e generalissime senza le quali non possono essere definiti neppure i concetti più specifici. Se dunque non si conosce che cos'è l'ente per sé, non si può conoscere adeguatamente la definizione di alcuna sostanza specifica. E l'ente per sé non può essere conosciuto se non in unione con le sue proprietà che sono: unita, verità e bontà. L'ente, poi, può essere pensato: parziale o completo, imperfetto o perfetto, in potenza o in atto, come modo di essere o come ente simpliciter, come parziale o totale, transeunte o permanente, condizionato o incondizionato, come misto al non essere o come ente puro, come dipendente o assoluto, successivo o antecedente, mutevole o immutabile, semplice o composto; e siccome « le privazioni ed i difetti non possono essere conosciuti se non per mezzo di concetti positivi» (Averroè, De Anima, text. 25), il nostro intelletto non si rende conto pienamente del concetto di nessun ente creato se non ha l'idea dell'ente purissimo, attualissimo, completissimo e assoluto che è l'ente senza altre aggiunte ed eterno, nel quale si trovano nella loro purezza le ragioni di tutte le cose. Come, dunque, l'intelletto potrebbe sapere che quest' ente è manchevole e incompleto se non avesse alcuna cognizione dell'ente privo di ogni difetto? Lo stesso dicasi delle altre proprietà ricordate. Diciamo, poi, che il nostro intelletto intende veramente le proposizioni, quando sa con certezza che sono vere; e saper questo vuol dire che non può ingannarsi in quella conoscenza.
Esso sa, infatti, che quella verità non può essere diversa e che, dunque, è immutabile. Ma poiché la nostra mente è mutevole, essa non potrebbe vedere quella verità risplendere immutabilmente se non con l'aiuto di una luce che risplende immutabilmente, la quale non può essere una creatura mutevole. Esso conosce dunque in quella luce che illumina ogni uomo veniente in questo mondo, la quale è vera luce, il Verbo che fin dal principio è presso Dio (Giov. 1,1 e 9).

Il nostro intelletto percepisce veramente una conseguenza quando vede che la conclusione segue necessariamente dalle premesse. E questo può vedere non solo quando le premesse sono necessarie, ma anche quando si riferiscono a realtà contingenti come: « se un uomo corre, un uomo si muove». Ed il nostro intelletto percepisce questo rapporto necessario non solo a proposito di enti, ma anche a proposito di non enti. Come infatti quando un uomo esiste, segue: « seunuomocorre, si muove », questa proposizione condizionale vale anche se un uomo non esiste.

La necessità di tale conseguenza non deriva pertanto dall'esistenza materiale della cosa, perché essa è contingente, ne dall'esistenza della cosa nella nostra anima,
perché allora sarebbe una finzione se non esistesse nella realtà; ma deriva da un modello che è nell'arte eterna, in virtù della quale le cose hanno un ordine e un rapporto fra loro
modellato sulla rappresentazione di quell'arte eterna. Ogni intelligenza dunque che ragiona con verità, dice Agostino nel De vera Religione (39, 72). è illuminata da quella verità eterna e ad essa si sforza di pervenire. — Da ciò appare manifestamente che il nostro intelletto è unito alla stessa verità eterna poiché non può cogliere con certezza nessuna verità se quella verità non gliela insegna. Tu puoi dunque vedere,riflettendo su di te, questa verità che ti istruisce se le passioni e i fantasmi sensibili non tè lo impediscono frapponendosi come nubi fra tè e il raggio della verità.

 

4. L'operazione della facoltà che porta alla scelta si esplica nella deliberazione, nel giudizio e nel desiderio. — La deliberazione consiste nel ricercare che cosa sia meglio, se questo o quest'altro. Ma il meglio non può essere definito tale se non in rapporto all'ottimo; ed il rapporto consiste nella maggiore o minore somiglianza di esso rispetto all'ottimo; nessuno dunque sa se una cosa è migliore di un'altra se non sa che essa è più simile all'ottimo. E nessuno sa se essa è più simile a un'altra se non conosce quest'altra; infatti non posso sapere se un tale è simile a Pietro se non so chi è o non conosco Pietro. Pertanto la nozione del sommo bene è necessariamente impressa in chiunque debba deliberare.

Ma non si arriva a un giudizio certo sulle cose da deliberare se non in virtù di una legge. E nessuno giudica con certezza secondo una legge se non è certo che quella legge è retta
e che egli non deve giudicare di essa. Ora la mente umana giudica se stessa ma non può giudicare la legge per mezzo della quale essa giudica; perciò quella legge è superiore alla mente umana la quale giudica mediante questa in quanto le è impressa. Ma niente è superiore alla mente umana se non Colui che l'ha creata; pertanto l'attività deliberativa, se agisce in piena consapevolezza, quando giudica attinge alle leggi divine.
Il desiderio ha per oggetto principale ciò che sommamente lo attira. E sommamente attira quel che sommamente si ama; ma quel che sommamente si ama è la felicità; e la felicità non
si possiede se non nel fine ottimo e ultimo, perché il desiderio umano non tende se non al bene sommo o a ciò che ad esso conduce o possiede una qualche immagine di quello.
Tanto grande è l'attrattiva del sommo bene che la creatura non può amare nulla se non per il desiderio di esso. E si inganna ed erra quando prende l'immagine e il simulacro per
la vera realtà.

Vedi, dunque, come l'anima è vicina a Dio e la memoria, con le sue operazioni, conduce all'eternità, l'intelligenza alla verità, la volontà alla somma bontà.

 

5. L'ordine, l'origine e i mutui rapporti di queste facoltà, ci conducono alla stessa beatissima Trinità. — Infatti, dalla memoria nasce l'intelligenza come sua prole, perché noi abbiamo intelligenza quando l'immagine che è nella memoria si riflette in quel vertice dell'intelletto e diventa parola; dalla memoria e dall' intelligenza, poi, sgorga l'amore come loro nesso. Queste tre facoltà, cioè: la mente generatrice, il verbo e l'amore, corrispondono nell'anima, alla memoria, all'intelligenza e alla volontà e sono consustanziali, coeguali, contemporanee e compenetrantesi a vicenda. Se, dunque, Dio è perfetto spirito, possiede memoria, intelligenza e volontà, possiede anche il Verbo generato e l'Amore risultante, i quali sono necessariamente distinti poiché uno è generato dall'altro e non essenzialmente o accidentalmente ma personalmente.

Pertanto quando la mente considera se stessa, allora, come per mezzo di uno specchio, si eleva verso la contemplazione della beata Trinità, del Padre, del Verbo e dell'Amore, delle
tre persone coeterne, coeguali e consustanziali, esistenti ciascuna nelle altre senza contendersi con esse, ma essendo tutte e tre un solo Dio.

 

La contemplazione dell'unità divina nel suo primo nome che è l'essere[6]

1. Possiamo contemplare Dio non soltanto fuori e dentro di noi, ma anche sopra di noi; fuori di noi attraverso l'orma che Egli ha lasciato nelle creature, dentro di noi attraverso
la Sua immagine impressa nella nostra anima, e sopra di noi attraverso il lume che è segnato sulla nostra mente che è la luce della Verità eterna dalla quale « la nostra mente è immediatamente informata» (Agostino, De div. quaest. lxxxiii, 51, 2-4). Coloro che si sono esercitati nel primo grado sono già entrati nell'atrio che si trova davanti al tabernacolo; coloro che si sono esercitati nel secondo grado sono entrati nel santo; coloro che sono passati per il terzo grado entrano con il Sommo Sacerdote nel santo dei santi dove, sopra l’ arca si trovano i Cherubini di gloria ad adombrare il propiziatorio; e questi Cherubini rappresentano i due modi o gradi per mezzo dei quali noi possiamo contemplare le invisibili ed eterne perfezioni di Dio; il primo riguarda gli attributi essenziali di Dio, l'altro le proprietà delle persone divine.

2. Il primo modo. anzitutto e principalmente, ci fa fissare lo sguardo nello stesso essere ed affermare che il primo nome di Dio è: Colui che è. Il secondo modo ci fa fissare lo sguardo nel bene in sé ed affermare che questo è il primo nome di Dio. Il primo si riferisce essenzialmente al vecchio Testamento che proclama soprattutto l'unità dell'essenza divina per il fatto che fu detto a Mosè: Io sono colui che sono (Esodo 3, 14). Il secondo modo di intendere si riferisce al nuovo Testamento in cui si determina la pluralità delle persone divine nella formula del battesimo che viene dato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo (Matt. 28,19). Ecco perché il nostro maestro Cristo, volendo condurre alla
perfezione evangelica il giovane che aveva osservato la legge, attribuisce principalmente ed esclusivamente a Dio il nome di buono. Nessuno, dice, è buono se non Dio solo (Luc. 18,19).
[...].

 

3. Chi desidera dunque contemplare le invisibili percezioni di Dio nell'unità della sua essenza, rivolga anzitutto il suo sguardo verso l'essere e vedrà che esso è così certo che non
può essere pensato non esistente, perché lo stesso purissimo essere non si presenta se non mettendo pienamente in fuga il non-essere — così come il nulla non è se non la piena fuga
dell'essere —. Come, dunque, il nulla assoluto non possiede niente dell'essere né delle sue proprietà, così e inversamente, l'essere non possiede nulla del non essere, né in atto né in
potenza, né secondo verità, né secondo il nostro giudizio. Ora, poiché il non essere è la privazione dell'essere, il non essere non può essere conosciuto dalla nostra intelligenza se
non mediante l’essere; l'essere, invece, non è concepito in rapporto ad altro poiché tutto ciò che è conosciuto o è conosciuto come non ente o come ente in potenza, oppure come ente in atto. Se, dunque, il non-ente non può essere concepito se non mediante l'ente e l'ente in potenza se non mediante l'ente in atto e l'essere esprime il puro atto dell'ente, ne segue che
l'essere è ciò che è primariamente concepito e quell'essere è atto puro. Ma questo non è l'essere particolare perché quest'ultimo è un essere limitato in quanto misto a potenza, né
l'essere analogo perché non possiede attualità in quanto non esiste neppure. Perciò il puro essere in atto non può essere che l'essere divino.

 

4. È una strana cecità quella del nostro intelletto il quale non riflette su quello che vede prima di ogni altra cosa e senza il quale non può conoscere nulla. Ma, come l'occhio
intento ad osservare le varie differenze dei colori, non vede la luce grazie alla quale può vedere il resto e, se la vede non se ne rende conto, così l'occhio della nostra mente intento
ad osservare gli enti particolari ed universali non avverte l'essere per eccellenza che è al di là di ogni genere, benché esso gli si presenti per primo ed attraverso di esso conosca le altre cose. Per cui appare proprio vero che « l'occhio della nostra mente si comporta nei confronti delle realtà più evidenti della natura come l'occhio del pipistrello di fronte alla luce »
(Aristot., Metaf. Il, 1) perché, abituato alle tenebre degli esseri creati ed alle immagini delle realtà sensibili, quando vede la luce dell'essere supremo gli sembra di non vedere nulla
e non capisce che questa stessa oscurità è la più grande illuminazione della nostra mente, come accade all'occhio cui sembra di non vedere nulla quando vede la luce pura.

 

5. Considera, dunque, se puoi, l'essere purissimo e ti accorgerai che esso non può essere pensato come derivato da altro e che perciò deve essere necessariamente pensato come assolutamente primo, tale che non può venire ne dal nulla né da un altro. Cosa infatti potrebbe considerarsi per sé se lo stesso essere non esiste per sé e non è da sé? —

Tale essere ti apparirà come assolutamente privo di non essere e quindi senza principio e senza fine, cioè eterno. —

Ti apparirà come non avente in sé altro che lo stesso essere e quindi a nulla unito, cioè semplicissimo.

Ti apparirà come esente da ogni possibilità poiché ogni possibile in qualche modo ha in sé del non essere e ti apparirà quindi come attualissimo.
Ti apparirà privo di ogni possibile difetto e quindi come
perfettissimo. —

Ti apparirà, infine, esente da ogni possibile diversità e quindi sommamente uno.
Pertanto l'essere puro, semplice ed assoluto, è l'essere primario, eterno, semplicissimo, attualissimo, perfettissimo e sommamente uno.

 

 

 

LA CONOSCENZA NELLE RATIONES AETERNAE E L'ESEMPLARISMO

Se tutto ciò che è conosciuto da noi con certezza sia conosciuto nelle ragioni eterne [7]

 

rispondo. Per la comprensione delle cose predette occorre notare che quando si dice che tutto ciò che si conosce con certezza si conosce nella luce delle ragioni eterne, tale affermazione può essere intesa in un triplice modo. Anzitutto ritenendo che alla conoscenza certa concorra l'evidenza della luce eterna come totale e sola ragione di conoscenza. — E questo modo di intendere è meno giusto perché in base ad esso non ci sarebbe alcuna conoscenza delle cose se non nel Verbo; ed allora non differirebbe la conoscenza che abbiamo come viatori dalla conoscenza che avremo in patria[8], né la conoscenza nel Verbo dalla conoscenza delle cose nel loro proprio genere, né la cognizione per scienza da quella per sapienza, né la cognizione naturale dalla cognizione che avremo per grazia, né la cognizione razionale da quella per rivelazione. E, siccome tutte queste cose sono false, questa via non è assolutamente da percorrere. — Da questa teoria, condivisa da alcuni quali gli Accademici primi e secondo la quale nulla può essere conosciuto con certezza se non nel mondo  archetipo ed intelligibile, è nato l’errore, come dice Agostino nel libro secondo del Contra Academicos (5, 11 ss.), che non si potrebbe conoscere nulla per il fatto che quel mondo intelligibile, come sostennero i nuovi Accademici, è nascosto alle menti umane. E pertanto costoro, volendo mantenere la prima tesi  e la sua posizione, caddero in un evidente errore perché « un piccolo errore commesso all'inizio diventa grande alla fine » (Arist., De coelo et mundo, 5).

In un secondo modo si può intendere che la ragione eterna con la sua influenza concorre necessariamente alla conoscenza certa in modo tale che il conoscente, nell'atto di conoscere, non attinge la stessa ragione eterna, ma solamente ne subisce l'influenza. — E questo modo di dire è insufficiente, secondo le parole del beato Agostino, il quale esplicitamente e con
ragionamenti dimostra che nella conoscenza certa la mente è regolata da leggi immutabili ed eterne le quali non sono possedute da essa, ma si trovano sopra di essa nella verità
eterna. Pertanto affermare che la nostra mente quando conosce non possa andare al di là dell'influenza della luce eterna, è affermare che Agostino si è sbagliato, perché non è facile spingere in questo senso le sue dichiarazioni; ed è veramente assurdo dire una cosa simile di un cosi grande Padre e di un Dottore sommamente autorevole fra tutti i commentatori della sacra Scrittura.

Inoltre, o l'influenza di quella luce è generale, come accade quando Dio influisce su tutte le creature, o speciale come accade quando Dio influisce con la grazia. Se è generale, Dio
non deve essere chiamato datore di sapienza in un senso diverso da cui è detto fecondatore della terra, o datore di conoscenza più di quanto non sia datore di denaro; se è speciale, come avviene nella grazia, allora ogni conoscenza sarebbe infusa e nessuna sarebbe acquisita od innata. Tutte cose assurde. Vi è però un terzo modo di intendere la presenza dell'idea
eterna — un modo intermedio fra le due soluzioni estreme — e cioè che per la conoscenza certa si esige necessariamente la ragione eterna come regolatrice e come ragione che muove
a conoscere, non come unica ragione e nella sua piena chiarezza ma insieme con l'idea creata e in quanto solo parzialmente intuita nel nostro stato di viatori.

E questo è quanto fa capire Agostino nel quattordicesimo libro del De Trinitate, al capitolo quindicesimo (n. 21), quando dice: « L'empio si ricorda di rivolgersi verso Dio come verso quella luce dalla quale era toccato anche quando era lontano da Lui. Infatti da qui deriva che anche gli empi pensano l'eternità e condannano o lodano giustamente molti atteggiamenti nei comportamenti umani ». Dove egli aggiunge (ibid.) che essi si comportano in questo modo a causa delle regole che « sono scritte nel libro di quella luce che si chiama verità ». — La nobiltà della conoscenza e la dignità del conoscente richiedono, poi, che la nostra mente quando conosce con certezza raggiunga in qualche modo quelle regole e quelle ragioni immutabili.

La nobiltà della conoscenza, perché non ci può essere conoscenza certa se non c'è immutabilità del conoscibile e infallibilità del conoscente. Ora la verità creata non è assolutamente immutabile ma è solo ipoteticamente necessaria; similmente neppure l'intelletto creato è del tutto infallibile per propria virtù, perché entrambi sono stati creati e tratti dal non essere all'essere. Se, dunque, per avere una conoscenza piena bisogna ricorrere a una verità del tutto immutabile e stabile e a una luce assolutamente infallibile, è necessario che in una conoscenza di questo genere si ricorra all'arte suprema come a luce e verità: luce, dico, che attribuisce infallibilità al conoscente e verità che da immutabilità allo scibile.
Per cui, poiché le cose esistono nella mente umana, nel loro genere e nell'arte eterna, non è sufficiente all'anima conoscerle come esistono dentro di lei o come esistono nel loro genere per averne una conoscenza certa, perché questi modi di esistere sono entrambi mutevoli, ma deve raggiungerle in qualche modo come esistono nell'arte eterna.

La presenza delle idee eterne è pure richiesta dalia dignità del soggetto conoscente. Lo spirito razionale infatti possiede una parte superiore ed una parte inferiore della ragione; e come accade che per esprimere un giudizio pieno sulle azioni da compiere non basta la parte inferiore senza la superiore, così avviene anche per un pieno giudizio speculativo. Ora
questa parte superiore è quella in cui si trova l'immagine di Dio, è quella che aderisce alle regole eterne e basandosi su quelle giudica e definisce tutto ciò che giudica e definisce
con certezza; e ciò le compete in quanto è immagine di Dio. La creatura infatti può avere con Dio un rapporto di orma, di immagine o di similitudine. In quanto orma essa si rapporta a Dio come al suo principio; in quanto immagine si rapporta a Lui come al proprio oggetto di conoscenza; ma in quanto similitudine si rapporta a Dio come ad un dono infuso. E così ogni creatura è un'orma che proviene da Dio, un'immagine che conosce Dio ma è similitudine sole quella nella quale abita Dio. In relazione a questo triplice grado di rapporto esiste un triplice grado di cooperazione divina.

Nell'attività che la creatura ha come sua orma Dio coopera come principio creativo; nell'attività che la creatura ha come sua similitudine quale è un'attività meritoria e piacente a
Dio, Egli coopera come dono infuso; nell'attività che la creatura ha come sua immagine Dio coopera come ragione che muove a conoscere; e tale è l'attività della conoscenza certa
la quale non proviene dalla ragione inferiore senza l'aiuto della superiore.

Poiché, dunque, la conoscenza certa compete allo spirito razionale in quanto è immagine di Dio allora, in questo tipo di conoscenza, esso raggiunge le ragioni eterne. Ma poiché nello
stato di viatore tale spirito non è pienamente simile a Dio, non le attinge in modo chiaro, pieno e distinto; ma esso le raggiunge in modo maggiore o minore secondo il suo maggiore o minore grado di similitudine con Dio, sempre però in qualche modo le raggiunge, perché il carattere di immagine non può mai essere separato da lui. Per cui, poiché nello stato di innocenza l'intelletto era immagine di Dio non deformata dalla colpa ma non ancora in possesso della deiformità della gloria, esso raggiungeva le ragioni eterne in parte ma non « in aenigmate ». Mentre nello stato di natura decaduta, esso manca di similitudine divina ed abbonda di difetti, perciò le raggiunge in parte ed « in aenigmate ». Nello stato, poi, di gloria esso sarà esente da difetti e possiederà una similitudine piena con Dio ed allora attingerà le ragioni eterne nella loro pienezza e chiarezza.
Inoltre, poiché l'anima umana non è immagine per tutta se stessa, essa insieme con le idee eterne apprende anche le similitudini delle cose astratte dalle immagini sensibili come
proprie distinte ragioni di conoscenza senza le quali non le basta, per conoscere, la luce della ragione eterna finché è nello stato di viatrice, a meno che sia in grado di trascendere questo
stato grazie ad una particolare rivelazione come accade in coloro che sono rapiti in estasi e nelle rivelazioni di alcuni profeti.

Se in Dio si debbano porre idee[9]

Per prima cosa si chiede se si debbano porre idee in Dio. Che sia così è dimostrato:

a. Anzitutto dall'autorità di Agostino nel De div. quaest. lxxxiii (2, 2): « Le idee sono forme eterne ed immutabili contenute nell'intelligenza divina ». Da questi tre dati si ricava che l'idea è in Dio.

b. Inoltre con la ragione si dimostra quanto segue: chi opera razionalmente e non casualmente o necessariamente, ha una nozione della cosa prima che la cosa sia; ma colui che conosce ha la cosa conosciuta o in se stessa o in una sua similitudine; ma, prima di esistere, le cose non possono essere in Dio in se stesse, dunque vi saranno secondo una loro similitudine. Ma la similitudine della cosa per cui la cosa è conosciuta e prodotta è l'idea; dunque ecc.

c. Inoltre tutto ciò clic conduce alla conoscenza di un'altra realtà ha in sé la similitudine del conosciuto o esso stesso è la similitudine di quello; ma lo specchio eterno conduce le
menti di coloro che lo vedono alla conoscenza di tutte le realtà create, come dice Agostino (De civitate Dei, xi, 29), perché lì sono conosciute meglio che altrove; pertanto si conclude
che in esso risiedono le similitudini. E consta che sono in lui come in un soggetto conoscente, rappresentano non soltanto agli altri ma anche a lui; ora in questo consiste l'essenza dell'idea; pertanto ecc.

d. Inoltre, poiché le cose sono prodotte da Dio, si trovano in Lui come nella loro causa efficiente e Dio è veramente causa efficiente; similmente, poiché da Lui stesso sono condotte al fine, con altrettanta verità Egli è pure causa finale; pertanto con uguale ragione, poiché da Lui sono conosciute ed espresse, Dio è per se stesso il loro verissimo modello. Ma
non è modello se non ciò in cui sono le idee delle cose modellate; dunque ecc [...]

rispondo. Bisogna dire che su questo argomento si sono avute due opinioni.

Alcuni intatti hanno detto che Dio non conosce per idee ma in quanto è causa. E dicono: come il punto se conoscesse la sua potenzialità conoscerebbe le linee e la circonferenza,
come l'unità se possedesse capacità conoscitiva da poter riflettere su di sé conoscerebbe tutti i numeri, così è in Dio.
Infatti, poiché Dio ha la virtù di produrre tutte le cose e conosce tutta la sua virtù egli conosce tutte le cose. E dicono che Dionigi abbia inteso dire questo quando affermò che « Dio non conosce ogni realtà secondo un'idea ma secondo la sola causa di eccellenza ». — Ma questa tesi non può reggere.
Anzitutto perché Dio non conosce facendo un passaggio dal principio al principiato, ma con un semplice intuito. E poi. ogni conoscente in quanto tale è simile al conoscibile; perciò ha una sua similitudine, oppure esso stesso ne è similitudine. Ancora: ogni conoscente produce distintamente poiché conosce distintamente, non viceversa; perciò la ragione del produrre non è la ragione del conoscere. Ed inoltre conosce alcune realtà che non provengono da Lui. Per questi e simili motivi occorre pensare diversamente.

Perciò esiste un'altra tesi, sia secondo i Padri sia secondo i filosofi, per cui Dio conosce per idee e ha in sé le ragioni o le similitudini delle realtà che conosce, nelle quali non solo Lui stesso conosce ma anche quelli che guardano verso di Lui; e queste ragioni Agostino chiama idee e cause primordiali.

Per capire, poi, le obiezioni occorre por mente che l'idea è definita similitudine della cosa conosciuta. E la similitudine si può intendere in due modi. In un modo secondo la relazione
di due cose ad una terza; e questa è la similitudine per univocita; l'altro è quello secondo il quale una cosa è detta similitudine di un'altra; e questo tipo di similitudine non riguarda la convenienza in un elemento comune, perché la similitudine è simile per se stessa e non in virtù di una terza realtà. In questo modo la creatura si dice similitudine di Dio o, per converso, Dio si dice similitudine della creatura. Se assumiamo la similitudine in tale senso, essa è ragion di conoscenza ed è chiamata idea. — Ma altra è in noi altra in Dio.
In noi l'idea è similitudine il conosciuto è la verità. Infatti in noi la similitudine è ricevuta ed impressa dall'esterno perché l'intelletto nostro rispetto al conosciuto è possibile e non
atto puro; perciò passa all'atto grazie a qualcosa del conosciuto che è similitudine di esso. In Dio, invece, accade il contrario, perché l'idea è la verità e il conosciuto, cioè la
creatura, è similitudine della verità. E poiché l'idea è nella stessa verità prima, l'idea in Dio è sommamente espressiva. E poiché tutto ciò che sommamente esprime assimila perfettissimamente il conosciuto con un'assimilazione adatta alla conoscenza, risulta che la verità stessa, per il fatto che fa conoscere, è similitudine espressiva e idea. Diversamente accade in noi poiché, per il fatto stesso che è similitudine, la verità fa conoscere.

 

 

 

 

 

 

 

IL MONDO CORPOREO

LE RATIONES SEMINALES E LA COMPOSIZIONE
DI MATERIA E FORMA

Se tulle le forme siano indotte dal Creatore o da una causa creata[10]

 

rispondo. Bisogna dire che sul modo di far passare una forma all'essere furono assunte quattro posizioni.

Alcuni infatti, come Anassagora, sostennero l'occultamento delle forme. E questo fatto può essere inteso in due modi. O che, secondo Anassagora, le forme esistono attualmente nella
materia ma non appaiono all'esterno come se fossero un dipinto coperto da un panno; e questo modo di intendere è del tutto impossibile poiché ammetterebbe la presenza di contrari
in un soggetto. In un altro modo può intendersi che le essenze delle forme esistano in potenza nella materia non solo nascostamente ma come enti in potenza di modo che la materia abbia in se le ragioni seminali di tutte le forme nascoste in essa dalla prima creazione — e questo concorda con la filosofia e con la sacra Scrittura —; queste forme, poi, sarebbero condotte all'atto per l’azione di un agente. Ma questa interpretazione non è fedele alla tesi di Anassagora secondo la quale l'agente particolare non farebbe altro che rivelare quel che già c'è.

C'è stata un'altra tesi sostenuta da filosofi più moderni secondo la quale tutte le forme sono prodotte dal Creatore. E questa tesi può essere interpretala in un duplice senso; uno che Dio sia la causa principale in ogni produzione di nuove sostanze; ed in questo senso è vera; l'altro die Dio sia la totale causa efficiente e l'agente particolare non faccia altro che preparare la materia a ricevere le altre forme come riceve l'anima razionale; e quest'ultimo modo di intendere sembra essere stato quello di quei filosofi. —

Ma tale interpretazione è impossibile, perché l’agente particolare o induce qualcosa o nulla. E se induce nulla, allora non fa nulla. Se induce qualcosa, allora sembra che produca qualche disposizione; ma a quel modo che produce una disposizione produce anche l'altra. Perciò questa tesi non è ragionevole.

La terza tesi è che la materia è in potenza a quasi tutte le forme naturali, almeno corporee, siano esse forme elementari o di composti, le quali forme vengono attuate dagli agenti
naturali; e questa è la tesi che sembra aver sostenuto Aristotele [Metaf. vi, 8; xi, 3) ed oggi sostengono comunemente i dottori in filosofia e teologia. — Ma anche questa teoria
adito a due interpretazioni.

Infatti alcuni dicono che la materia ha una potenza recettiva e in certo modo attiva e cooperatrice poiché la materia ha, sia la possibilità di ricevere qualcosa, sia la tendenza a cooperare alla attuazione di qualcosa, mentre l'agente particolare è il principio effettivo ed originale della forma che deve essere prodotta, perché ogni forma possiede per natura la possibilità di moltiplicarsi; per cui l'induzione di una forma dipende da un agente naturale che moltiplica la propria forma. E costoro per chiarire la loro teoria fanno l'esempio della candela: la forma si moltiplica per intervento dell'agente naturale come una sola candela e in grado di. Accenderne molte, o come un solo oggetto può riflettere molte immagini di sé in più specchi. Perciò, dicono, tali forme non hanno origine dalla materia ma dall'agente particolare. E perciò non si può dire che siano create, né che siano fatte dal nulla; è creato infatti ciò che prima non era affatto; invece la forma prodotta così, era già in certo modo presente nella materia e nell'agente.

Il secondo modo di interpretare la tesi divenuta comune fra i filosofi ed i teologi è ammettere che le forme sono nella potenza della materia e non solo come quella dalla quale in
qualche modo derivano ma nella quale sono in certo modo contenute. Non però nel senso che una forma trae origine dal l'essenza della materia, ma nel senso che nella materia è
concreato qualcosa (aliquid) dal quale l'agente naturale che agisce su di essa trae la forma. Questo qualcosa di concreato non è come una parte della forma da produrre ma è qualcosa che può essere forma e diventa forma, come il bocciolo della rosa diventa rosa. Questa teoria sostiene dunque che nella materia ci siano le ragioni di tutte le forme producibili naturalmente; e quando una forma è prodotta, non è indotta di nuovo un'essenza, una realtà essenziale, ma è data alla materia una nuova disposizione perché diventi in atto quello che era già in potenza. Infatti l'atto e la potenza differiscono fra loro non in quanto dicono diverse essenze ma diverse disposizioni della medesima essenza; non tuttavia disposizioni accidentali ma sostanziali. Allora non è grande, come sembra, il potere dell'agente creato di far passare all’atto quello che esiste già in potenza.

Questa tesi, fra tutte quelle ricordate, è più intelligibile e più vicina alla verità. E tale tesi credo si debba sostenere non solo perché la ragione la consiglia, ma anche perché è confermata dall'autorità di Agostino espressa nel De Genesi ad litteram (capp. 16, 17, n. 32), autorità che il Maestro (Pietro Lombardo) cita: « Quelle cose che sono prodotte dalla natura
sono prodotte secondo le ragioni seminali ». Cosa siano queste ragioni seminali vedremo più sotto quando parleremo di esse (d. 18, art. 1, qq. 2 ss.). — Secondo questa tesi pertanto
bisogna sostenere che l'agente particolare educe le forme e produce le cose naturali.

Se gli angeli siano composti di materia e forma[11]

rispondo. Si deve dire che certamente l'angelo non ha una essenza semplice esente da ogni composizione; è infatti certo che l'angelo ha una molteplice composizione. Lo si può infatti considerare in rapporto al suo principio; ed allora in tanto è composto in quanto dipende da esso. Solo il sommamente semplice infatti e assolutamente indipendente, mentre ogni dipendente, per il fatto stesso di dipendere, ha una qualche composizione. Lo si può considerare, poi, in rapporto al suo effetto; ed allora è composto di sostanza e di potenza.
Lo si può considerare come un ente in genere; ed allora, dal punto di vista metafisico è composto di atto e potenza, dal punto di vista logico invece di genere e differenza. Parimenti
lo si può considerare come ente in sé; e così, quanto all'essere attuale vi è in lui composizione di ente e di essere; quanto all'essere essenziale vi è in lui composizione di quo est[12] e di quod est; quanto all'essere individuale o personale vi è in lui composizione di quod est e di quis est. Quando, dunque, si dice che l'essenza angelica è semplice, non lo è certamente per mancanza di queste composizioni.

Ma è altrettanto certo die alcune composizioni vanno rimosse dalla sostanza dell'angelo, come la composizione di parti quantitative, quella di parti eterogenee e la composizione di natura corporea e spirituale come c'è nell'uomo.

È dubbio invece se nell'angelo vi sia composizione di materia e forma. Ed alcuni vollero dire che nell'angelo non vi è una tale composizione mentre vi sono le composizioni anzidette. — Ma poiché nell'angelo esiste una certa mutevolezza non tanto come tendenza al non essere ma come tendenza ad arricchirsi di diverse proprietà, vi sono anche: una certa possibilità, una certa individuazione, una certa limitatezza ed una certa composizione essenziale propria della sua natura. Non vedo perciò la ragione per cui si debba sostenere che la sostanza dell'angelo non sia composta di diverse nature, come l'essenza di ogni creatura che esiste per sé. E se è composta di diverse nature, quelle due nature stanno in rapporto di atto e potenza, quindi di materia e forma. Pertanto è più vera quella tesi secondo la quale nell'angelo vi è composizione di materia e forma.

 

 

 

 

L'UOMO

Se l'anima di Adamo era costituita di materia [13]

rispondo. Per capire le cose anzidetto occorre tener presente che su questo argomento diversi autori hanno proposto differenti pareri.

Alcuni infatti hanno detto che nessun' anima, ne quella razionale, ne quella dei bruti, ha una materia, perché gli spiriti sono semplici; hanno detto, tuttavia, che l'anima razionale ha
la composizione di quo est e di quod est poiché essa è una sostanza ed è nata per esistere a sé indipendentemente dal corpo. — Ma, dal momento che è chiaro che l'anima razionale può patire, agire, passare da una proprietà all'altra e sussistere in sé, non si vede perché sia sufficiente dire che in essa c'è solamente composizione di quo est e di quod est senza aggiungere che in essa vi è composizione di materia e forma.

Ci furono anche altri i quali sostennero che non solo l'anima razionale ma anche quella dei bruti è composta di materia e forma, dal momento che sia l'una che l'altra sono sufficienti a muovere il corpo. — Ma poiché l'anima dei bruti non possiede un'attività propria e non è nata per esistere a sé, non sembra sia composta di materia e forma.

E perciò vi è un terzo modo di pensare, intermedio fra le due soluzioni anzidette, e cioè che l'anima razionale, essendo una sostanza ed essendo capace di sussistere per sé, agire e patire, muovere ed essere mossa, abbia in sé un fondamento della sua esistenza, un principio materiale da cui ha l’esistenza ed un principio formale da cui ha una determinata essenza.
Dell'anima dei bruti, invece, non occorre dire questo dal momento che essa ha il suo fondamento nel corpo. Poiché, dunque, il principio che fissa l'esistenza in sé della creatura è il
principio materiale, occorre concedere che l'anima umana abbia una materia. Tale materia, poi, non soggiace alla estensione, alla privazione ed alla corruzione; perciò è chiamata materia spirituale. — Pertanto quelli che hanno parlato di un principio materiale esteso e soggetto a privazione, hanno anche detto che l'anima razionale non ha una materia; ma costoro non intendevano parlare della materia nella sua generalità ma della materia fisicamente intesa, come abbiamo detto quando trattavamo della semplicità dell'angelo (d. 3, pars 1,
art. 1, q. 2).

Se l'anima umana sia per natura immortale[14]

rispondo. Circa le cose sopraddette occorre ritenere che l’anima razionale è immortale, secondo quanto dice la fede cattolica con la quale concordano la filosofia ed ogni retta ragione. Benché, poi, possiamo essere condotti alla conoscenza dell'immortalità dell'anima razionale per molte vie, il modo migliore di giungere a questa conoscenza è tuttavia quello di partire dalla considerazione del fine; ed Agostino approva particolarmente questo modo di procedere nel libro xiii del De Trinitate (7 ss., 10 ss.) e nel De Civitate Dei (viii, 8;  xiv, 2-5; xix, 1 ss.). Non senza ragione, perché il fine impone necessità a ciò che tende al fine.

Anzitutto, pertanto, occorre supporre come vera e certa la tesi che l'anima razionale è stata fatta per partecipare alla somma beatitudine. E questo è così certo dal grido di ogni
desiderio naturale, che non può dubitarne se non chi ha la ragione totalmente stravolta; è certissimo infatti che tutti vogliono essere felici. Se dunque non può essere felice chi
può perdere il bene che ha perché così avrebbe già un motivo di temere, di dolersi e quindi di essere infelice, è necessario che se l'anima è stata fatta capace di beatitudine sia per natura immortale. E così si inferisce l'immortalità dell'anima considerandone la causa finale.

Tale immortalità cionondimeno è ricavabile anche a partire dalla causa formale. Poiché infatti l'anima è stata fatta per partecipare della beatitudine che consiste nel solo sommo bene,
è stata fatta capace di Dio e quindi a sua immagine e somiglianza. Ma se essa è immagine di Dio, è anche chiaramente simile a Dio; il che non sarebbe possibile se fosse soggetta a morte; essendo perciò per propria natura immagine di Dio, l'anima non può terminare con la morte.

Dal che si ricava anche un altro argomento dell'immortalità dell'anima considerata nella sua causa materiale. Poiché infatti l'essenza o la forma dell'anima è di una così grande dignità da rendere l'anima stessa insignita della nobilissima condizione di essere immagine di Dio, anche la materia che è unita a una tal forma è legata ad essa da una tendenza così forte che in nessun modo desidera tendere verso un'altra forma dal momento che un ottimo legame le tiene unite.

E poiché Dio non può volere che sia dissolto quello che è così bene unito come sono la materia e la forma dell'anima, risulta che Dio il quale ha creato l'anima è pure Colui che
la conserverà .sempre nell'essere. — E così l'immortalità dell'anima è desunta chiaramente da quattro cause benché l'argomento più importante sia desunto dalla causa finale. E le
ragioni che abbiamo date non dicono solamente che l'anima è immortale ma anche perché è immortale.

 

Se l'intelletto agente e possibile siano una sola o differenti facoltà[15]

rispondo. Per capire quanto abbiamo detto sopra occorre notare che i nostri predecessori tentarono in vari modi di porre una differenza tra l'intelletto possibile e l'agente. Alcuni infatti dissero che differiscono come due sostanze; altri che differiscono come due facoltà; altri ancora dissero che differiscono come l’habitus e la potenza; ed altri, in quarto luogo, dissero che differiscono come una potenza assoluta ed una relativa all'oggetto.

La prima tesi per cui si dice che l'intelletto agente ed il possibile differiscono come due sostanze, può essere intesa in un duplice senso. — Alcuni infatti vollero dire che l'intelletto agente è un'intelligenza separata, mentre l'intelletto possibile è insito al corpo. E questo modo di porre e risolvere il problema si fonda su molti detti di filosofi i quali sostennero che l'anima razionale è illuminata dalla decima intelligenza e resa intelligente dalla propria congiunzione con essa. — Ma tale teoria è falsa ed errata. Nessuna sostanza creata infatti, ragionando con rigore, ha il potere di illuminare l'anima e di perfezionarla nell'attività intellettiva; invece essa deve essere illuminata immediatamente da Dio, come fa vedere in molti passi Agostino.
Il secondo modo di intendere la prima tesi è che l'intelletto agente si identifichi con Dio e l'intelletto possibile con la nostra anima. E questa interpretazione è fondata sulle parole
di Agostino il quale in parecchi passi (De magistro 11 ss., 38 ss.; De civitate Dei viii, 7 e 10; xi, 27, 2) dimostra apertamente che « la luce che ci illumina, il maestro che ci insegna, la
verità che ci dirige, è Dio », in base a quel passo di Giovanni (1,9): Era la luce che illumina ogni uomo ecc. — Tale interpretazione, però, benché dica una cosa vera e consona alla
fede cattolica, non risponde al problema, poiché Dio che ha dato alla nostra anima la capacità di conoscere intellettivamente come ad altre creature ha dato la capacità di compiere
altri atti, pur rimanendo la causa principale dell'attività di ogni creatura, ha dato però a ciascuna la forza attiva per attuare la sua attività caratteristica. Quindi dobbiamo senza
dubbio ammettere che Dio ha dato all'anima umana non soltanto l'intelletto possibile ma anche l'intelletto agente, in modo tale che l'uno e l'altro fanno parte dell'anima. — Pertanto il primo modo di assegnare una differenza fra l'intelletto possibile e l'agente, cioè quello secondo cui l'intelletto agente e il possibile differiscono fra loro come due sostanze, si deve scartare come non pertinente.

La seconda proposta, la quale ritiene che i due intelletti differiscano come due facoltà dell'anima, può essere intesa in un duplice senso, uno falso ed uno vero.

Il primo senso è che l'intelletto possibile sia una facoltà puramente materiale che inerisce all'anima per parte della sua materia; mentre l'intelletto agente sia una potenza puramente formale che inerisce all'anima per parte della sua forma.
E questo modo di intendere è fondato sulle parole di Aristotele (De anima iii, 5) il quale dice che « l'intelletto agente è ciò che può diventare ogni cosa, mentre l'intelletto adente è
ciò che può fare ogni cosa », che sono i caratteri della forma e della materia. — Ma questo modo di intendere non concorda con la verità. Infatti se l'intelletto possibile fosse una facoltà puramente passiva e dipendesse dalla materia, potrebbe essere posto in tutte le realtà nelle quali è possibile trovare un principio materiale. Inoltre come l'occhio non è la vista, così questa facoltà non dovrebbe essere chiamata intelletto.

L'altro modo di intendere è dire che l'intelletto agente ed il possibile siano due facoltà dell'intelletto attribuite ad una sola sostanza e che si riferiscano alla composizione materiale
e formale dell'anima. L'intelletto agente sarebbe appropriato in un certo senso alla forma ed il possibile alla materia poiché l'intelletto possibile è ordinato a ricevere mentre l'intelletto agente ad astrarre. Né l'intelletto possibile è puramente passivo; deve rivolgersi infatti alla specie intelligibile che è nel fantasma e con l'aiuto dell'intelletto agente, deve riceverla e giudicare di essa. Similmente neppure l'intelletto agente è totalmente in atto perché non potrebbe intendere l'altro da sé se non fosse aiutato dalla species la quale, astratta dal fantasma, deve unirsi all'intelletto. Per cui né l'intelletto possibile conosce senza l'agente, né l'agente senza il possibile.
— E questa tesi è vera e fondata sulle parole di Aristotele. Egli sostiene infatti che l'agente ed il possibile sono due differenze dell'intelletto; per cui, come riteniamo siano necessari due elementi nel medio (aria) perché possa essere astratta la species dall'ometto veduto e cioè la luce e la trasparenza in modo tale che mediante la luce si astrae la species e mediante la trasparenza la species è trasportata e ricevuta, così, nel caso presente, si può ritenere che questi due, agente e possibile, concorrano ad un unico atto in modo tale che l'uno non possa svolgere completamente la sua attività senza l'altro.

Il terzo modo di porre la differenza fra intelletto agente e possibile secondo il quale si dice che essi differiscono secondo la potenza e l'habitus può essere inteso in due sensi. — Un
primo: l'intelletto agente è definito un certo habitus costituito da tutti gli intelligibili e l'intelletto possibile come una potenza atta ad acquisire conoscenza mediante le immagini sensibili. E questo modo di intendere sembra fondarsi sulle parole di Boezio (De consol. philos. v, 3) il quale afferma che «l'intelletto, trattenendo 1a totalità, perde di vista i singoli».
Il che alcuni vollero intendere nel senso che il nostro intelletto ha in sé la conoscenza innata degli universali, perché diversamente non sarebbe in grado con la sua virtù, anche
astraendo
dai sensi e dalle immagini, di rendere l'intelletto possibile intelligente in atto; infatti tutto ciò che fa passare un altro dalla potenza all'atto è un ente in atto. — Ma questa
interpretazione
non si accorda con le parole di Aristotele (De anima iii, 4) il quale dice che «l'anima è stata creata come una tabula rasa » « e non ha una conoscenza innata degli intelligibili ma la acquisisce mediante il senso e l'esperienza ».
L'altro senso è dire che l'intelletto agente differisce dal possibile come l’habitus dalla potenza non perché l'agente sia habitus pienamente attuato ma perché è potenza abituale.
E tale modo di intendere è probabile, è vero e è fondato sui detti dei filosofi e dei cattolici. E’ vero, infatti, secondo Dionisio (De coelest. hierarch. 3, 2), che le sostanze intellettuali in quanto tali « sono lumi ». Pertanto la perfezione e il completamento della sostanza intellettuale è la luce spirituale che è in lei; perciò la facoltà intellettiva dell'anima è per essi quella certa luce spirituale alla quale si riferisce il Salmo (4,7) che dice: E’ scritta in noi la luce del tuo volto, Signore.
E Aristotele ha interpretato questa luce dicendo che è 'intelletto agente. Afferma infatti che « quell'intelletto che può fare ogni cosa è come un certo abito simile alla luce; in qualche modo infatti anche la luce fa passare i colori dalla potenza all'atto», come si riscontra nel iii libro del De anima (cap. 5). Un esempio simile a questo può ritrovarsi nell'occhio del gatto il quale non ha solo il potere di apprendere l'oggetto visibile come gli altri occhi, ma ha anche il potere di proiettarlo in sé in forza del lume che ha innato. [...]

Così, dunque, risulta evidente come da molte teorie sia sgorgata una certa conoscenza della differenza che intercorre fra l'intelletto agente ed il possibile. Sono quattro infatti i modi
principali di intendere la differenza che intercorre fra questi intelletti, e ciascun modo si suddivide in due momenti, come nel procedimento è stato dimostrato, ma solo tre modi sono
degni di approvazione; ed ognuno di questi non discorda dall'altro ma ne trae origine. Poiché infatti vi sono diverse differenze dell'intelletto le quali, sebbene riguardino tutto il composto hanno tuttavia rapporto, una con la forma, l'altra con la materia dell'anima, si può ricavare che uno non solo assume il significato di potenza ma anzi di potenza abituale, mentre l'altro assume puramente il significato di potenza. E da qui deriva che uno si dice convenga all'anima per sé, l'altro in rapporto al corpo, uno è sempre in atto e l'altro no; non perché l'anima conosce sempre per mezzo dell'intelletto agente, ma perché, come una luce corporea risplende sempre ed è sempre pronta ad illuminare di sé mentre la cosa illuminabile non è sempre illuminata a causa di qualche impedimento, così si debba intendere anche quanto abbiamo proposto. — Si devono concedere pertanto le ragioni, benché alcune di esse non siano molto probanti, le quali dimostrano che l'intelletto agente e l'intelletto possibile sono due differenze della potenza intellettiva.

 

 

 

 

VOLONTÀ’  E  MORALITÀ’

Se il libero arbitrio sia una potenza distinta dalla ragione e dalla volontà[16] '

rispondo. Per la comprensione della predetta questione occorre notare che su di essa furono diversi i pareri dei dotti.
Alcuni infatti vollero dire che come la mente può intendersi in un duplice senso, talvolta in senso comune, e così intesa comprende la memoria, l'intelligenza e la volontà, talvolta in
senso proprio ed allora è distinta dall'intelligenza e dalla volontà, così il libero arbitrio può essere inteso in un duplice senso, vale a dire, comune, ed in questo senso non è diverso
dalla ragione e dalla volontà, e proprio, ed in tal senso può essere distinto dalla ragione e dalla volontà ed essere una facoltà che comanda alla ragione ed alla volontà, che le muove e domina entrambe, il cui primo atto non è conoscere e volere ma un atto riflesso su queste due facoltà, che le muove e le regge, è quell' atto cioè per cui diciamo di voler conoscere e di voler volere. E quest'atto è preambolo alla ragione ed alla volontà, e come potenza corrisponde al Padre per il fatto che il suo atto è sommamente potente ed è il primo perché non è mosso ma muove. Perciò è chiamato dai Padri facoltà o potere della volontà e della ragione, cioè, potere capace di muovere facilmente la volontà e la ragione; e si trova in questi tre momenti, volontà, raigione, libero arbitrio, un carattere di immagine nella parte che muove, la quale può essere trasformata in questa vita specialmente dalla grazia ed in virtù dei doni in Paradiso.

Ad altri invece e diversamente sembra che, poiché la ragione e la volontà possono riflettere su di sé e queste due potenze sono sufficienti a svolgere tutti gli atti dell'anima, cioè: giudicare, fuggire e scegliere, è inutile porre nell'anima una potenza distinta da queste due. Se dunque la natura non fa nulla invano, le facoltà dell'anima razionale sono sufficientemente
divise in conoscitive ed affettive, cioè in ragione e volontà; e perciò dicono che il libero arbitrio non è una facoltà distinta da queste due.

Ognuna di tali posizioni ha molta probabilità; e, se le vogliamo intendere attentamente e benevolmente, troveremmo che non discordano fra loro ma aiutano ad esprimere meglio la
medesima verità. Infatti quando diciamo che una potenza si distingue da un'altra, la distinzione può essere intesa o come distinzione reale, o come distinzione di ragione. Distinzione
reale è per esempio quella fra l'intelletto e l'affetto; distinzione di ragione è quella fra la ragione in quanto conoscente e la ragione in quanto muove, cioè quando comanda di muovere o dispone al moto. — Parlando pertanto della distinzione di ragione, si può dire che il libero arbitrio si distingua in certo modo dalla ragione e dalla volontà perché il libero arbitrio le nomina sotto l'aspetto per cui muovono mentre la volontà e la ragione le indicano sotto l'aspetto in cui sono mosse; il libero arbitrio le nomina sotto l'aspetto del comando
mentre ragione e volontà le nomina sotto l'aspetto dell'esecuzione. E sotto questo aspetto, per ragione di appropriazione vi è nell'anima il carattere di immagine; e, di conseguenza,si capisce anche la prima tesi e possono andare le ragioni che inducono a credere ad essa. Non conducono infatti a porre una distinzione reale fra libero arbitrio, ragione e volontà, ma solo una distinzione di ragione e di appropriazione.

Parlando invece di distinzione reale delle potenze, il libero arbitrio non indica una potenza diversa e distinta dalla ragione e dalla volontà, per il fatto che le potenze dell'anima razionale sono bastantemente divise in cognitiva e motiva e tutti gli atti dell'anima possono essere compiuti per mezzo di tali potenze che sono la cognitiva e l'affettiva, o la ragione e la volontà, come dimostrano le ragioni che inducono a questa conclusione. Poiché infatti sia la ragione che la volontà sono capaci di riflettere su di sé, quando parlo di volontà che vuole
qualcosa o di volontà che vuole volere, non intendo parlare di due facoltà realmente differenti. Infatti nelle realtà spirituali non occorre che il motore e il mosso differiscano secondo la sostanza poiché, come dice Anselmo (De concord. praesc. et praedest. cum lib. arb. q. 3, 11): « la volontà è uno strumento che muove se stesso » ed anche la ragione è una facoltà che
conosce se stessa; perciò se lì esiste una qualche distinzione, è solo una distinzione di ragione. — Ed in tal modo risulta evidente la risposta alla questione proposta ed ai motivi che
sostengono entrambe le tesi. Ritengo infatti che il libero arbitrio non sia una potenza realmente distinta dalla ragione dalla volontà; ritengo però che esso sia in qualche modo distinto da esse secondo una distinzione di ragione per cui può dirsi facoltà di entrambe. Di quale forza sia poi tale distinzione apparirà meglio sotto. Per il momento basti aver detto che la distinzione non è così grande da costituirlo come facoltà a sé realmente distinta dalla ragione e dalla volontà.

 

 

Se dobbiamo attenerci a tutto quello che la coscienza ritiene sia necessario per la salvezza[17]

rispondo. Occorre dire che la coscienza talvolta delta qualcosa che è secondo la legge di Dio, talvolta qualcosa che non è considerato dalla legge di Dio, talora qualcosa che è contro la legge di Dio; e parliamo qui di ciò che la legge detta come precetto non come consiglio o persuasione.

Nel primo caso la coscienza vincola semplicemente ed universalmente, perché l'uomo è obbligato a ciò che la coscienza gli detta dalla legge divina e la coscienza che concorda con la legge gli mostra quest'obbligo. Nel secondo caso la coscienza obbliga sintanto che permane; per cui l'uomo è tenuto: o a mettere da parte la coscienza, od a compiere ciò che la coscienza detta anche se dicesse che è necessario alla salvezza togliere una pagliuzza da terra. Nel terzo caso infine, la coscienza non obbliga a fare o a non fare, ma obbliga a deporre se stessa per
il fatto che quando questa coscienza sia erronea per un errore contrario alla legge divina, necessariamente sin tanto che permane pone l'uomo fuori della salvezza; e pertanto è necessario metterla da parte poiché sia che l'uomo faccia quel che essa dice, sia il suo opposto, egli pecca mortalmente. Se fa ciò che la coscienza gli detta e questo è contro la legge di Dio e il fare qualcosa contro la legge di Dio è peccato, senza dubbio pecca mortalmente. Se fa l'opposto di quello che la coscienza detta mentre essa permane, peccherebbe ancora mortalmente, non a motivo dell'azione che compie, ma perché la compie in malo modo. Agisce infatti a dispetto di Dio mentre crede, e la coscienza glielo suggerisce, che questo dispiaccia a Dio benché a Dio piaccia. E questo intende dire la glossa a quel passo della lettera ai Romani 14,23: Tutto ciò che non procede dalla fede è peccato; dove la glossa (di Pietro Lombardo) dice: « Tutto ciò che riguarda la coscienza, se si fa contro il suo volere dice l'Apostolo che è peccato. Infatti, benché si faccia il bene, se non si crede di doverlo fare, è peccato ». Ed il motivo di ciò è che non riguarda tanto Dio quello che l'uomo fa ma con quale animo lo faccia, e colui che fa quanto Dio comanda credendo di agire contro la volontà dello stesso Dio, non agisce con buona ma con cattiva disposizione; perciò pecca mortalmente. — Risulta così evidente che ogni coscienza: o vincola a fare quello che detta, o vincola a deporre se stessa. Non ogni coscienza tuttavia vincola a fare quanto essa detta, come la coscienza che detta non doversi fare quello a cui l'uomo è obbligato per altra via; e
questo tipo di coscienza è detta erronea. — Ciò visto, risulta evidente la risposta al problema proposto ed anche alle obiezioni di parte.

 

 

 

 

OLTRE LA RAGIONE

L'estasi mentale e mistica nella quale il nostro intelletto trova il suo riposo ed il nostro affetto passa totalmente a Dio[18].

 

1. I sei tipi di considerazioni trascorse sono stati per noi sei gradini del trono del vero Salomone attraverso i quali si giunge alla pace dove la mente dell'uomo veramente pacifico riposa in tutta tranquillità come in una Gerusalemme interiore.
Sono state come le sei ali del Cherubino attraverso le quali la mente del vero contemplativo illuminata pienamente dalla somma sapienza si può elevare verso l'alto; sono stati anche
come i sei primi giorni della creazione durante i quali la mente può esercitarsi per arrivare al sabato della quiete. Dopo che la nostra mente ha potuto contemplare Dio al di fuori
di sé per mezzo delle sue orme e nelle sue orme lasciate nello universo, ha potuto contemplarlo dentro di sé attraverso la sua immagine e nella sua immagine, al di sopra di sé per mezzo della sua similitudine con la luce divina che risplende sopra di noi e nella stessa luce divina nella misura compatibile col nostro stato di viatori e con le sue capacità, e finalmente, nel sesto grado, sarà giunta sino al punto di considerare in Gesù
Cristo, primo e sommo principio, mediatore fra Dio e gli uomini, quelle verità che non possono assolutamente trovarsi nelle creature e che oltrepassano la perspicacia dell' intelletto
umano, non le rimane altro da fare che, contemplando queste conquiste, trascendere ed oltrepassare non solo il mondo sensibile ma anche se stessa; ed in tale passaggio Cristo le è via e porta e veicolo, scala e veicolo (Giov. 14, 6; 10, 7), è come il propiziatorio collocato sull'arca di Dio {Esodo 25,20),sacramento nascosto dai secoli (Efes. 3,9).

2. E chi guarda con piena attenzione della mente questo propiziatorio e, con fede, speranza, carità, devozione, ammirazione, gioia, venerazione, lode e giubilo, lo vede sospeso alla croce, fa con lui la Pasqua, cioè il passaggio e, con la verga della croce può passare il mar Rosso, entrare dall'Egitto nel deserto dove gusterà la manna nascosta, potrà riposare con
Cristo nella tomba come morto esteriormente, ma sentirà, per quanto è compatibile con questo stato di viatori, quello che fu detto sulla croce a1 ladrone che aderì a Cristo: Oggi
sarai con me in paradiso [Luc.
23,43).

3. E questo fu mostrato al beato Francesco quando nel rapimento della contemplazione sul monte eccelso — dove ho meditato e scritto queste cose — gli apparve un Serafino con sei ali inchiodato in croce, come abbiamo sentito io e parecchi altri raccontare da un suo compagno che allora si trovava con lui; lì, egli, nel rapimento dell'estasi, passò in Dio e divenne l'esempio della perfetta contemplazione come prima lo era stato della perfetta azione, altro Giacobbe ed altro Israele, affinchè Dio per mezzo di lui potesse invitare, più con l'esempio che con la parola, tutti gli uomini veramente spirituali ad un simile passaggio ed alla elevazione della mente.

4. Ma se vogliamo che questo passaggio sia perfetto, dobbiamo abbandonare tutte le operazioni dell'intelletto e trasferire completamente in Dio tutto l'affetto di cui siamo capaci. Questo è un dono mistico e segretissimo che non conosce se non chi lo riceve e non riceve se non chi lo desidera e non desidera se non chi è infiammato fino al midollo dal fuoco dello Spirito santo che Cristo mandò sulla terra. In tal senso l'Apostolo (1 Cor. 2,10 ss.) disse che questa mistica sapienza è stata rivelata dallo Spirito santo.

5. Poiché dunque, per ottenere questo, a nulla vale la natura e poco può l'impegno, occorre attribuire poca importanza alla indagine e molta all'unzione; poca alla lingua e molta alla gioia interiore; poca alla parola e allo scritto e tutto al dono di Dio, allo Spirito santo: poca o nessuna importanza alla creatura e tutto all'essenza creatrice, al Padre, al Figlio e allo
Spirito santo [...].

 



 

Traduzione e scelta dei passi a cura di F. De Capitani



[1] In Hexaemeron, coli. vi, nn. 2-6; Opera v, pp. 360-61.

 

[2] I Padri di Quaracchi escludono si tratti di Averroè, ma non  propongono per conto loro altri nomi.

[3] Quaestiones disputatae. De mysterio Trinitatis, q. i, art. 1; Opera, V, pp. 45-50.

[4] Itinerarium mentis in Deum, cap. iii, Opera, v, pp. 303-305.

[5] Qui san Bonaventura si riferisce alle tre parti in cui era diviso il
« tabernacolo » di Mosè contenente l'arca dell'alleanza simboleggiata
dalle tavole della legge e di cui si parla in Esodo 26. Tali parti erano:

l'atrio, che per Bonaventura simboleggia il mondo sensibile; il santo,
che simboleggia l'anima umana; ed il santo dei santi, che simboleggia
la visione mistica di Dio

[6] Itinerarium mentis in Deum, cap. v, nn. 1-5; Opera v, pp. 308-309.

[7] Quacstiones disputatae  De scicntia Christi. q. IV; Opera,  v,  pp. 22-24

[8] Cioè: la conoscenza che abbiamo in questa vita non differirebbe da
quella che avremo nella vita eterna.

[9] I Sent.., d. 35,  art. unicus,  q. 1.

[10] II  Sent., d. 7, pars 2, art. 2, q. 1.

[11] II Sent., d. 3, pars 1, art. 1, q. 1.

[12] Il quo est è l'essenza, il quod est il concreto e il quis est è l'individuo.

[13] II  Sent., d. 17. art. 1, q. 2.

[14] Il Sent., d. 19, art. 1, q. 1.

[15] II Sent., d. 24, pars 1, art, 2, q. 4.

[16] II  Sent., d.  25, pars 1, art. unicus, q. 2.

[17] II Sent. , d.. 39,  art. 1, q.  3.

[18] Itinerarium mentis in Deum, cap. vii, 1-5; Opera, v, pp. 312-313.